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La "street photography" non esiste. Parola di un fotoreporter

Riposto dal sito dell' Huffington Post un articolo di Nicola Ughi ..... a voi il commento

Ci sono due modi per fotografare una città. Uno è quello del foto-reportage, con le sue infinite declinazioni sia in termini di contenuto che di stile. L'altro è rappresentato dalla fotografia d'architettura, a sua volta interpretata in molteplici maniere. La caratteristica del primo è quello di avere come soggetto principale la gente. I palazzi, le strade, l'arredo urbano, sono solo il contesto in cui si svolgono le azioni umane. La caratteristica del secondo è quella di raccontare invece una città, e la sua storia, attraverso le sue architetture. E in questo caso a fare da sfondo o a essere del tutto assente è la gente.

Mi piace fotografare le città in entrambi i modi. E mi sto cimentando da qualche anno in due progetti distinti (ma in qualche modo uniti) con cui voglio raccontare le città contemporanee. Ma oggi voglio parlare in particolare di quando si fotografa una città con lo stile del fotoreportage. E quindi del mio progetto A walk in... finora portato avanti a Londra e Parigi, ma prossimamente anche in altre città d'Europa.

A walk in... non è nient'altro che la storia di una passeggiata in città. La registrazione di quello che di volta in volta mi colpisce - uno scorcio, un'atmosfera, uno sguardo, un gesto che riesce a riempire all'improvviso l'obiettivo. Mi piace vagabondare senza meta, indugiare da qualche parte guardando la gente e poi ripartire: quando fotografo una città in stile da reportage a comandare è il mio istinto di uomo ancora prima che di fotografo. Una grande città infatti offre certamente dei vantaggi a chi vuole scattare una foto. Mette a disposizione di un autore un ampio spaccato delle attività umane e un ampio spettro di luci ed ombre (siano queste dirette o riflesse). Inoltre la città propone spesso, come possibile scenografia, una grande quantità di vetro che ha il potere di fare da specchio e moltiplicare punti di vista. Praticamente è la miglior palestra per un fotoamatore che vuole approfondire le sue conoscenze o un fotografo che vuole crescere artisticamente e tecnicamente. L'obiettivo che preferisco usare in questi casi è il 24 - 70: sufficiente per prendere le distanze dalla scena se è necessario non farsi notare, e altrettanto sufficiente per avvicinarsi al massimo al soggetto e addirittura deformarlo se è quella la soluzione stilistica più interessante. A volte le immagini sono poetiche, altre volte drammatiche, altre ancora buffe. Ma per favore non chiamate la mia street photography.

Perché? Perché la street photography in realtà non esiste. Come al solito, da buon toscanaccio, non ho paura di fare provocazioni. Chi per primo ha coniato questo termine, e lo ignoro, non ha inventato nulla di nuovo. Mi sembra come il "ponce alla livornese", che esisteva già da secoli in Inghilterra, ma una volta approdato a Livorno è diventato improvvisamente opera loro - sono pisano, si vede? La mia provocazione però non vuole essere fine a sé stessa.

Mi domando infatti se Cartier Bresson, maestro assoluto del linguaggio fotografico legato alla narrazione, avesse saputo che stava facendo della "street photography". Oggi forse si rivolterebbe nella tomba. La "foto di strada" non fa infatti altro che raccontare quello che succede nelle strade di una città. E con certezza, almeno nel mondo occidentale, sia durante le ore di luce che di buio, in strada qualche cosa accade. Ma se racconta quello che accade in strada non c'è altro modo di definirla: è fotografia di reportage. Tutto il resto è una speculazione critica priva di fondamento. Parola, provocatoria, di un fotoreporter.

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