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...Reportage Sociale

IL REPORTAGE SOCIALE di Pietro Collini

IL REPORTAGE SOCIALE SIGNIFICATO E PROBLEMATICHE PRATICHE E SEMANTICHE

Sono rimasto molto colpito, leggendo l’editoriale di Emanuele Costanzo sul numero di giugno 2009 di Foto Cult, dalla descrizione puntuale che egli riporta sulla situazione attuale di tutti i circoli fotografici virtuali e non, dove afferma che: “…non tutti i generi godono delle stesse preferenze da parte dei fotografi. Quelli più gettonati sono la fotografia di viaggio, il paesaggio, la macro e la fotografia naturalistica. Solo una piccola percentuale si dedica con costanza e profitto ai generi di fotografia sociali, ovvero il reportage e la street photography.” 1.

La lettura di questa constatazione mi ha spinto a proporre una mia dissertazione sulla fotografia di reportage sociale, alla quale mi sento particolarmente vicino.

SIGNIFICATO

Il reportage nasce lontano nel tempo quando Jacob Riis riprese una serie di immagini per documentare la povertà a New York, già nella metà dell‘800.

Ma la vera nascita si colloca, secondo me, quando Walker Evans, ai primi del ‘900 inizia ad utilizzare la macchina fotografica per documentare la grande crisi e con Dorothea Lange e altri, scattano immagini documentando la cruda realtà della povertà del popolo americano per conto della FSA (Farm Security Administration), un ente federale statunitense il cui intento era di sottolineare lo stato di grande povertà e disagio della popolazione rurale del sud degli States, mettendo per la prima volta a nudo differenze e contraddizioni tra due mondi Nord e Sud.

In questo periodo la fotografia fa un salto generazionale di fondamentale importanza nella sua storia: si passa da una fotografia passiva, dove la ripresa di persone, cose o monumenti, ne fanno la “parente povera” della pittura, talora ad essa asservita come mero strumento di lavoro, a una fotografia di movimento in termini di ricerca e denuncia sociale, politica, antropologica o semplicemente etnografica. Finalmente nasce una musa a sé stante.

Fare del reportage sociale comporta una scelta di campo umana e filosofica, ma non necessariamente politica. De Paz sostiene che : “ Con l’espressione fotografia sociale non si indica tanto un preciso genere fotografico quanto piuttosto una sensibilità e un atteggiamento di fronte alla realtà storico-sociale contemporanea. La fotografia sociale cerca di stimolare nell’osservatore il risveglio di una coscienza e quindi una reazione critica e partecipata verso le ingiustizie, le oppressioni, la povertà, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e, in genere, verso condizioni umane che coinvolgono precise responsabilità individuali e istituzionali. Nell’ambito di tale fotografia sociale è possibile individuare, grosso modo, due grandi direzioni operative. Una direzione sociologica e una direzione ideologicopolitica o di testimonianza in cui, spesso, la descrizione obiettiva si accompagna o lascia parzialmente il posto al messaggio ideologico che il fotografo, tramite la propria Weltanschauung (“visione del mondo” ndr), vuole comunicare al pubblico. “ 2

A mio modo di vedere, soprattutto in Italia siamo abituati a dividere tranchanne ciò che è di destra, da ciò che è di sinistra, ma non è così. La sensibilità individuale viene messa in gioco nel saper porre l’accento su problematiche che sono di pura umanità e che non hanno connotazione politica. Si diventa di destra o di sinistra quando si vuole strumentalizzare la fotografia a fini diversi da quello che dovrebbe essere una seria onestà intellettuale.

Il vero reportage sociale è quanto di più democratico si possa immaginare: porta a conoscenza di tutti, poveri e ricchi, situazioni di vita reale, di persone, di vissuti quotidiani filtrati attraverso l’occhio del fotografo, che può decidere cosa inquadrare, scattare o evitare, dandoci segno di una sua reale sensibilità e correttezza. Pertanto nell’accezione “sociale” dobbiamo comprendere non solo il condividere racconti di miseria, povertà o morte, ma anche di gioia, opulenza e colpevole indifferenza e quindi la distinzione di De Paz non mi pare completamente pertinente.

Nei nostri paesi spesso s’incontrano serie difficoltà a pubblicare immagini in cui vengono mostrate delle verità scomode, come in un suo scritto sostiene David Levi Strauss: “ La tendenza anti-estetica può facilmente diventare anestetica, una mancanza di consapevolezza indotta artificialmente per proteggersi dal dolore, per proteggere le “ipocrite frontiere” della proprietà e del privilegio. È indecoroso guardare la fame dritta negli occhi, fare in modo che anche gli altri siano obbligati a guardarla allo stesso modo. È un’atrocità, un’oscenità, un crimine ideologico.

Quando si cerca di rappresentare l’altro, di “farne il ritratto” o raccontarne la storia”, ci si butta a capofitto in un terreno minato di problemi politici reali. La prima domanda da porsi è: che diritto ho di rappresentare te? Ogni fotografia di questo tipo dev’essere una negoziazione, un complesso atto di comunicazione. Come spesso accade in questi casi, le probabilità di successo sono davvero remote, ma forse questo significa che non bisogna provarci? ” 3

Da qui il motivo che spesso induce molti, in particolare in ambito fotoamatoriale, a giudicare sbrigativamente le immagini di reportage, soprattutto quando esprimo gravi disagi sociali, povertà estrema o sofferenza, come scattate per “fare colpo”, quando va bene, altrimenti ti accusano addirittura di essere uno sfruttatore senza “etica” o, infine come mi è capitato su un sito dove abitualmente pubblico, che sono tristi e quindi non devono essere presentate perché turbano chi le guarda.

A proposito di etica, vi sottopongo questo estratto da un saggio su etica e fotogiornalismo di Scianna: “ Ma c’è un’altra storia, che mi ha raccontato il fotografo Mare Riboud, in cui le cose hanno avuto un ben più in-quietante sviluppo.

Mare era in Bangladesh con altri fotografi nel pieno dei disordini rivoluzionari del 1972. A un certo punto si trovarono in mezzo ad alcuni soldati indiani che avevano occupato il paese, i quali avevano arrestato e stavano portando via alcuni aguzzini del regime precedente. C’era intorno a questi soldati una piccola folla che urlava contro gli arrestati, come sempre le folle urlano in tutte le piazze Loreto della storia e del mondo contro quelli che osannavano il giorno prima, pur odiandoli. Riboud a un certo punto si rese conto che siccome c’erano i fotografi che fotografavano la scena gli stessi soldati erano entrati nella parte dei giustizieri e cominciavano a picchiare ferocemente quei due disgraziati. La cosa sgomentò Mare che partì di corsa a cercare un colonnello con il quale era entrato in contatto per andargli a dire che i suoi soldati stavano linciando delle persone. Non lo trovò, tornò indietro di corsa ma quei due disgraziati erano già stati massacrati.

I due fotografi che erano rimasti hanno avuto il premio Pulitzer per le fotografie di quel linciaggio. Uno dei due, tra l’altro, sarebbe morto poco tempo dopo in Cambogia. C’è da aggiungere un dettaglio che aumenta l’ambiguità di tutta la faccenda. Indira Gandhi, allora primo ministro dell’India, avendo visto quelle foto sulla stampa americana emanò ordini rigorosissimi al fine di evitare che si ripetessero episodi simili. Quelle immagini, quindi, che mostravano un linciaggio probabilmente favorito, se non determinato dalla presenza dei fotografi, hanno contribuito forse a salvare la vita ad altre persone. Forse. Però io considero Mare un fotografo e una persona rispettabile e non mi piace affatto che abbiano avuto il premio Pulitzer fotografi che hanno assistito, partecipando, sia pure non volontariamente a quel linciaggio che, in un modo o in un altro, hanno finito col favorire.” 4

Personalmente sono portato a pensare che i soldati avrebbero comunque massacrato quei poveretti, anche se i giornalisti non fossero stati presenti, se non altro per scoraggiare gli astanti ad acuire la protesta e così tutto sarebbe caduto nell’oblio. Al contrario, sono convinto che proprio la documentazione di quel sopruso abbia contribuito a salvare altre vite umane e che i fotografi non abbiano certamente agito in funzione del premio Pulitzer, tenuto conto che hanno messo a repentaglio la loro vita, tanto vero che che uno dei due morirà successivamente sul campo. Al contrario sono certo che abbiano svolto fino in fondo il loro dovere di fotogiornalisti: vedere, registrare e mostrare.

Nel reportage, quindi, etica non vuol dire non scattare una fotografia, ma significa estetizzare l’immagine rendendola fruibile attraverso la propria interpretazione, che non deve distorcere il contenuto di fondo della realtà vissuta, piegandola a un puro strumento di propaganda, cioè creando un falso.

Una chiarificazione esemplare di quanto ho espresso sopra lo troviamo in Salgado, quando in un articolo descrive così le sue esperienze in un’Etiopia, piegata dal flagello della siccità e della fame: “Quello che trovai era al di là della mia immaginazione. Nel primo campo che visitai c’erano 80.000 persone. Stavano morendo di fame. Si vedevano i resti dei cadaveri, corpi di uomini e donne e molti, molti bambini. Ogni giorno morivano più di cento persone.

I primi giorni era impossibile fotografare questi campi a causa della situazione emotiva. Troppo sbalordito per scattare. Ma dopo qualche giorno smetti di piangere e qualche giorno dopo ancora capisci che hai un lavoro da fare. È un lavoro proprio come quello dei medici che sono venuti per curare i malati o gli ingegneri arrivati per costruire case. “ 5

Tra i significati del reportage, vorrei portare la vostra attenzione a considerare che, mentre la peculiarità delle immagini di macro, di paesaggio, di ritratto in studio, di cui siamo ormai abbondantemente pervasi, è di esaurire il racconto in una sola immagine: il fotografo riprende l’oggetto/soggetto e tutto finisce con la comunione che egli fa della sua fotografia; in essa è contenuto tutto il messaggio, come riempire un bicchiere e tutto finisce lì.

La fotografia di reportage non si esaurisce in una singola immagine icona di sé stessa, ma quella singola foto va concepita come una frase estrapolata da un lungo racconto, il cui significato vero e profondo, può essere colto solo arrivando a leggere il libro fino alla fine.

Parlare di reportage sociale o, se vogliamo, di fotogiornalismo, significa trattare di quella fotografia che, attraverso l’immagine, vuole raccontare particolari aspetti della società in cui viviamo; oppure testimoniare dell’esistenza di situazioni altrimenti sconosciute o lontane. Non necessariamente il fotografo deve proporre situazioni di degrado, violenza o sofferenza: la scelta dipende dalla sua sensibilità o “vocazione sociale”.

Comunque sia il reportage non s’improvvisa. Occorre seguire delle fasi ben precise, una volta scelto l’obiettivo da raggiungere e nello specifico, tratterò del reportage sociale filtrandolo attraverso le mie esperienze sul campo.

LE DIFFICOLTA’

LA FASE PREPARATORIA

Come ho accennato sopra occorre predisporre di un’adeguata preparazione culturale prima di affrontare il viaggio vero e proprio. A tale scopo, diversi mesi prima, incomincio a documentarmi sulla cultura, la religione, gli usi i costumi delle popolazioni e, anche se non antropologicamente fondamentale, ma utilissimo per me come medico, anche in ordine alle patologie mediche che potrò trovarmi ad affrontare.

Questo lavoro è di rilevante importanza per cominciare a previsualizzare nella mia mente quelle situazioni che diventeranno il filo conduttore del reportage. In mancanza di una valutazione seria, si rischia di arrivare sul luogo e di cominciare a fotografare “random”, senza una meta precisa, sperando di ottenere, alla fine, solo delle buone fotografie di soggetti casuali, che magari posso far colpo su coloro che osserveranno le mie fotografie, ma che non esprimono certamente il significato vero e profondo del reportage.

E’ quindi sulla base di una attenta valutazione antropologica, che si può estrapolare il cuore del reportage, il filo conduttore che deve collegare le immagini trasformandole in un vero e proprio racconto. Questa narrazione, illuminata da un background culturale, non può comunque prescindere dalla propria soggettività. Come diceva W. Eugene Smith: “ Quelli che credono che il reportage fotografico sia “selettivo ed oggettivo, ma non possa decifrare la sostanza del soggetto fotografato dimostrano una completa mancanza di comprensione dei problemi e dei meccanismi propri di questa professione. Il foto-giornalista non può avere che un approccio personale ed è impossibile per lui essere completamente obiettivo. Onesto sì, obiettivo no. ” 6

Così, dentro di me, cominciano anche a nascere sensazioni, convinzioni e aspettative situazionali, che mi forzeranno la mano durante il viaggio vero e proprio.

SUL CAMPO

“Vale più la pratica della grammatica”, racconta un vecchi adagio pregno di saggezza. Ciò lo si sperimenta quotidianamente sul campo.

Arrivato con un pieno di nozioni e di aspettative, devo confessarvi che, viverle giorno per giorno, comporta passare, in un attimo, dalla gioia di incontrare quello che ti aspettavi e fotografare con grande forza, alla delusione di non poter esprimere fotograficamente un concetto che avevi in mente per motivi tra i più disparati.

L’aspetto che, in ogni caso, ti arricchisce moltissimo è la possibilità di entrare in intimo contatto con la gente.

Entri nella loro intima quotidianità, sei accolto come uno di loro. Mangi allo stesso desco, condividi le loro emozioni e le fai tue: in una parola ti arricchisci dentro. Ecco che allora le immagini che riprendi non sono più una fredda documentazione situazionale, documentale o ambientale, ma divengono parte intima anche del tuo vissuto emozionale più profondo. L’immagine prende vita dentro di te e diventa parte di te, chiudendo in un abbraccio ideale anche chi ti sta vicino.

Grazie alla collaborazione dei missionari, ho potuto dialogare, farmi raccontare e capire. Comprendere quanto grande sia l’onore che mi fanno accompagnandomi all’albero sacro e nel luogo dove esercitano la liturgia dei loro riti più segreti; quando mi spiegano come fanno a placare l’ira dello spirito dell’antenato o come nel caso in cui mi consentono di entrare nella loro riserva, dove nemmeno le autorità sono ammesse.

In queste situazioni scattare una fotografia diventa quindi quasi un rito che ti incide dentro, come uno scalpello nella pietra. Ecco quindi che nella mente mi appare la fotografia finita, in BN, con i suoi chiaro/scuri, i tagli di luce, l’inquadratura adatta a sottolineare le parole del racconto.

Il BN è pertanto il mio linguaggio, ben strutturato. Vedo il mondo in BN. Che tristezza, molti penseranno; in realtà la gamma tonale è così ampia da trascendere il colore, da poter creare continui e variati accostamenti tali da dare vita ogni volta a parole nuove o, come nella musica, ad armonie nuove. Pensare che nella musica vi sono solo sette note base, la gamma tonale del BN gioca su 12 note (al minimo): quanta possibile creatività abbiamo nelle mani, anzi negli occhi!

Un altro discorso riguarda anche la scelta dell’inquadratura. A tutti sono note le regole auree della fotografia, chiamiamola così, canonica: la sintassi dei 2/3, dei pesi delle masse ed altre amenità del genere. Personalmente mi ritengo un anarchico: ho un’avversione profonda per le regole, anzi le studio tutte per infrangerle. Amo la rottura della simmetria, la caduta dei pesi e me ne frego della linea dell’orizzonte che dovrebbe essere sempre e tristissimamente diritta e orizzontale. Amo l’asimmetria, la ricerca dell’asimmetria che, come sottolinea Augusto Pieroni: “…consistendo nel rompere svariate regole conservando però il rigore sufficiente a creare una nuova regola fatta di infrazioni…la sua riformulazione della dinamica e della geometria classica in una ritmica dispara e serpentina. ” 7. I cui antesignani furono Paul Strand, Rodchenko, Moholoy-Nagy e Umbo, oppure come raccontava Diane Arbus: “… La questione è che non si eludono i fatti, non si elude la realtà com’essa è veramente … è importante fare delle brutte fotografie. Sono le brutte che mostrano qualcosa di nuovo. Esse possono farvi conoscere qualcosa che non avevate visto, in una maniera che ve le farà riconoscere quando le rivedrete. … Detesto l’idea della composizione. Non so cosa sia una buona composizione. In verità, probabilmente devo saperne qualcosa perché ci ho lavorato parecchio, cercando di scoprire quello che mi piace. Talvolta per me la composizione è collegata a una certa luminosità o a una sensazione di calma, e altre volte è il risultato di certi curiosi errori. Si possono fare le cose in modo giusto o in modo sbagliato, e alle volte mi piace il modo giusto, altre volte quello sbagliato. Questa è la composizione . … Per me il soggetto di una fotografia è sempre più importante della fotografia. È più complicato. La stampa è per me importante, ma non è una cosa sacra. Penso che la foto sia importante per ciò che rappresenta. Voglio dire che dev’essere una foto che rappresenta qualche cosa. E ciò che essa rappresenta è più importante di quello che essa è. ” 8

Ecco quindi che molte mie inquadrature escono dai canoni, talvolta creando nell’osservatore disorientamento, irritazione e sconcerto.

Tuttavia seguendo un’attenta lettura della fotografia appare chiaro che lo stravolgimento dell’inquadratura, è funzionale a sottolineare la drammatica sofferenza e lo stato di profonda oppressione in cui si trovano le donne ritratte: dall’alto verso il basso in obliquo, come una sciabola che sta per abbattersi su di loro. Come appare evidente in questo esempio:


A tale proposito m’intrigano molto le parole di Maria Giulia Dondero: “Il fotografo è essenzialmente testimone della propria soggettività, cioè del modo in cui si pone come soggetto davanti a un oggetto. Quello che dico è banale e ben noto. Ma insisterei molto su questa condizione (Barthes).

La fotografia è enunciata da un corpo che ha preso posizione nel mondo, un soggetto polisensoriale. Per questo è necessario interrogarsi sull’insieme formato dalla macchina fotografica e dal fotografo, legati l’uno all’altra durante tutte le operazioni che portano alla realizzazione di una fotografia”. Non ci interessa prendere in considerazione la macchina fotografica in quanto mero strumento, o la psicologia del fotografo, quanto piuttosto il modo in cui le diverse testualità mettono in scena la sensomotricità del fotografo nell’atto macchinino della presa fotografica.

Scattare un’immagine è descrivibile come un’esperienza di corpo a corpo:

Il fotografo non è mai un soggetto disincarnato di fronte a un oggetto mantenuto a distanza, ma un soggetto-corpo preso in una situazione intra-mondana della quale lui è uno degli elementi (Schaeffer 1997).

Ogni testo fotografico è il risultato di una presa di posizione del corpo nel mondo – e non del mero atto disincarnato dello scatto. Esiste sempre un adattamento ipoiconico del corpo del fotografo con l’apparecchio fotografico e con il mondo guardato attraverso il visore:

L’operazione di inquadratura mima in qualche modo quella dell’accomodamento visivo di un oggetto. Ma l’inquadrare non impegna solo lo sguardo. Per inquadrare un frammento di mondo è necessario innanzitutto sentirsi persi nel mondo. Sono delle componenti sensoriali non visive che mobilizzano il desiderio di fotografare un avvenimento. (Tisseron 1996).” 9

Con queste parole, apparentemente astruse, si vuole sottintendere che a farla da padrona, nello scattare un’immagine è un “unicum” d’identificazione del mezzo meccanico, della presenza soggettiva, dell’atteggiamento psicologico, della visione ontologica del momento e dell’analisi euristica del vissuto in quell’attimo: in definitiva emozionalità pura.

Nello specifico della scelta delle mie inquadrature, entrano quindi in gioco dinamiche molto complesse e interagenti, che nel caso specifico, mi portano con relativa frequenza a percepire il mio profondo emozionale come fuori dagli schemi ed a proporlo all’osservatore come affabulazioni di un linguaggio non convenzionale,

PROBLEMATICHE NELLA LETTURA E DIFFICOLTA’ SEMANTICHE

LA CONTESTUALIZZAZIONE

Il problema più evidente che affligge la lettura di un’immagine di reportage è la decontestualizzazione, ovvero quando l’immagine viene visionata singolarmente, al di fuori del contesto del reportage. Questa eventualità l’incontro quotidianamente quando carico una fotografia su qualunque sito web.

La singola immagine viene vista da molte persone che non conoscono il percorso logico del reportage e leggono la foto sulla base della loro esperienza personale, se non addirittura solo in base a sensazioni epidermiche.

La loro esperienza può poggiare su solide basi di preparazione culturale, oppure no, ma quello che più traspare evidente è che ognuno di noi legge l’immagine filtrandola attraverso il suo vissuto, la sua emotività, le sue convinzioni culturali e il suo gusto estetico: è sufficiente? Purtroppo no. Non è abbastanza per leggere in modo corretto una fotografia di reportage, così, isolatamente: occorre contestualizzarla. Da qui parte la raccomandazione di prendere sempre visione delle altre fotografie dell’album proposto.

BN o COLORE?

Nella parte precedente ho asserito che la mia scelta di linguaggio per trasmettere i miei reportage sia il BN. Qui facciamo un’analisi semantica.

Molti miei amici sostengono, a mio avviso a torto, che esistono fotografie che vanno bene a colori e fotografie che vanno bene in BN; altri pongono in risalto come il colore sia molto più reale (o realistico) del BN, ma è veramente così?

Leggiamo cosa scrive Pio Tarantini in un suo saggio: “ …Così anche in fotografia l’uso del bianconero o del colore deve rispondere a precise esigenze espressive e non essere mai gratuito: precisato che il primo secolo di vita della fotografia è stato scritto solo in bianconero e quindi con questa, per adesso, più lunga parte di storia ci si deve confrontare, oggi che abbiamo la possibilità di utilizzare indifferentemente e a parità qualitativa l’uno o l’altro mezzo, si deve anche sgombrare il campo da alcuni banali pregiudizi. Il primo di questi vuole che la fotografia a colori sia più realistica di quella in bianconero in quanto quest’ultima tende a trasfigurare, ad astrarre, mentre la prima riproduce più fedelmente la realtà così come la percepiscono i nostri occhi. Invece anche la riproduzione fotografica a colori fornisce sempre un’immagine i cui colori sono alterati da una serie di variabili – la luce e la sua temperatura cromatica, la pellicola o il sensore, l’esposizione – e inoltre c’è da aggiungere che una fotografia a colori, anche se eseguita il più correttamente possibile da un punto di vista tecnico (ma esiste una modalità che si possa considerare corretta?) risponde sempre alle esigenze, alla sensibilità e alla cultura del fotografo in merito al colore.

Si tratta dunque di una questione complessa alla quale si può rispondere solo in modo complesso: parafrasando una celebre frase di Man Ray’ – «Dipingo ciò che non posso fotografare e fotografo ciò che non posso dipingere» – potremmo azzardare che si dovrebbe fotografare in bianconero ciò che non si può fotografare a colori e si dovrebbe fotografare a colori ciò che non si può fotografare in bianconero. Stabilire i termini di questa scelta è compito del fotografo che dovrebbe escludere i luoghi comuni sul maggiore o minore realismo dell’una o dell’altra forma d’espressione.

A sostegno di questa tesi citiamo l’esempio dei reportage in bianconero di stampo neorealistico degli anni cinquanta che appaiono molto più aderenti alla realtà visibile di altri successivi reportage a colori in cui la realtà viene piegata o a mere esigenze editoriali, con colori quindi accentuatamente vistosi, o alle esigenze iperrealiste o di una lettura ironica del mondo. ” 10

Personalmente mi trovo in perfetta sintonia con quanto egli esprime. Oggi vanno “di moda” reportage dai colori innaturali dai volti draganizzati o alla Dave Hill, ma a mio parere sono, appunto, mode. Già la draganizzazione si vede sempre meno e anche Dave Hill sta esaurendo il suo tempo. Come dicono i saggi: “panta rei”, ma le immagini che ti parlano veramente al profondo del cuore resteranno sempre.

LA COMPOSIZIONE E IL TAGLIO

Piegare la composizione a regole rigide e schematiche, nel caso della fotografia di reportage, è a mio modo di vedere, un grave errore metodologico.

Ingabbiarla nelle regole dei terzi, prigioniera di reticoli, pretendere sempre una messa a fuoco assolutamente accademica, l’assenza di un micromosso ecc., uccide il significato vero e profondo che una fotografia può apportare alla logica di un reportage. Personalmente sono convinto che in questo genere d’immagini il significato emotivo e di contenuti, debba prevalere su tutto.

Non voglio affermare che una fotografia completamente sbagliata, illeggibile, sia comunque un bene, ma desidero sia ben chiaro che alcuni difetti, scompaiono davanti al messaggio che l’immagine porta con sé. A questo proposito mi fanno sorridere i commenti che si leggono in alcuni siti, anche molto, molto quotati nei quali si sminuisce un’immagine basandosi sulla lettura puramente tecnica e dimostrando di non avere compreso assolutamente nulla di cosa si intenda per “fotografia di reportage”.

A tale proposito basti citare William Klein e pensare al suo modo di riprendere, assolutamente anticonformista, di rottura delle regole e delle simmetrie, disincantato menefreghista della fotografia perfettina, dove il grandangolo, il mosso, il controcampo e il taglio anomalo ma geniale, lo estromisero dalla fotografia “canonica”, ma lo innalzarono nell’Olimpo dei fotografi di reportage.

IL LINGUAGGIO CONTEMPORANEO

L’invasione di internet, il passaggio dalla parola scritta all’immagine, le scelte editoriali il cui scopo, anche esplicitamente dichiarato, consiste nell’enfatizzare ogni pretesa novità a fini puramente commerciali e speculativi sono alla base di quelle che potremmo definire “avanguardie” (anche se non intendo generalizzare).

Oggi ogni fotografo che si rispetti, che voglia farsi un nome, deve prima di tutto inventarsi un nuovo linguaggio, un diverso modo di fotografare, al fine di attirare l’attenzione: il contenitore a spese del contenuto.

Per questo motivo siamo bombardati da immagini dai colori sgargianti, quasi violenti, che s’impongono spesso solo per i loro cromi, ma non per il contenuto, a scapito di immagini profondamente evocative e in BN, tanto per rifarmi a quanto accennato all’inizio citando Emanuele Costanzo.

A tale proposito mi permetto di riportare ancora un passo del libro di Tarantini: “ … Non è il luogo questo per poter approfondire questi esempi espositivi che avrebbero bisogno di uno spazio redazionale esclusivo ma li ho segnalati perché mi paiono sintomatici del serio problema, di cui si accennava all’inizio, dell’ambiguità del linguaggio dove ogni immagine può significare una cosa e un’altra ancora e il suo opposto. Il tutto avviene quando questa ambiguità, semantica e propositiva, va a innestarsi dentro un mercato dell’arte in crescita esponenziale che accoglie finalmente la fotografia tra le arti maggiori e un secolo e passa dopo le antiche diatribe otto-novecentesche può accadere, forse è accaduto, che si formi una “bolla speculativa” Una bolla importante non tanto da un punto di vista economico-finanziario: chi non ha interesse tra fotografi, galleristi, critici, giornalisti e operatori vari a che una fetta (piccola, in verità) del denaro che gira intorno al mercato dell’arte sia deviato verso l’opera squisitamente fotografica? E su questa apparente, per certi aspetti, distinzione occorrerà poi spendere qualche parola. La bolla risulta invece più interessante e importante per l’apparato storico-critico di cui ha bisogno per autolegittimarsi: ecco allora che scatta il meccanismo del “tutto è possibile’:

Siamo lontani, molto lontani, dall’analisi critica di Iean Clair” che già nel 1983 scriveva della sua meraviglia e disincanto nei confronti di un’Arte snaturata, genuflessa ai miti moderni delle avanguardie. Le famose, importanti, decisive Avanguardie Storiche del Novecento che, per Clair, diventano, in poco tempo, accademia, conformismo. Scrive al proposito, tra l’altro, Clair:

“L’avanguardia, esasperando ed esagerando la modernità, tende a negarla: si nutre di essa, ma la divora.

( … ) La parola importante è “conformità”: l’avanguardia non è il moderno poiché, esattamente come l’estetica neoclassica di Winckelmann, essa si conforma ad un modello. La modernità, il senso moderno, è al contrario il senso dell’unico, del fuggitivo, del transitorio.”

Pochi sono i critici e operatori che possono permettersi il lusso di esprimere contrarietà o almeno perplessità attorno alle operazioni artistiche in voga e si tratta di alcuni protetti da uno status ormai talmente consolidato da non temere cadute oppure, viceversa, sono voci inascoltate di operatori del tutto emarginati…

…Questa situazione di una critica omogeneizzata sulla “tendenza” investe dunque il mondo dell’arte in generale e si riversa, accentuandone forse alcuni aspetti, in quella fetta del mondo dell’arte che riguarda la fotografia. Non è difficile così, per una critica pronta a tutto pur di cavalcare l’onda, riempire di significati opere di una banalità sconcertante ed è ormai diventato purtroppo sempre più consueto leggere dei testi di presentazione e di analisi critica che sono dei vuoti esercizi retorici, autoreferenziali, che nulla dicono e che quando dicono qualcosa di comprensibile ha poca o nessuna attinenza con le immagini cui si fa riferimento. ” 10.

Sono giunto alla conclusione. Io ritengo, anche a costo di apparire banale, che è sempre opportuno porsi la fatidica domanda: “Cosa vuole trasmettermi l’autore?” In apparenza appare di un’ovvietà disarmante, ma se ci pensiamo a fondo sottintende che ci dobbiamo spogliare di tutte le nostre convinzioni, dobbiamo andare oltre una lettura euristica e liberarci dalle profonde radici ontologiche delle nostre categorie, ma, al contrario, siamo invitati ad aprirci a un’analisi semiologica asettica, disinibita, che sappia fruire della testualità dell’immagine in modo da decriptarne il senso più intimo.

Se alla fine di questa “seduta psicanalitica” non riusciamo a trovare un senso compiuto e l’immagine rimane muta ai nostri sensi, allora questo “vuoto” è evidente significazione che la fotografia in esame è priva di contenuti e quindi futile (“brutta” nell’accezione più letterale del termine).

BIBLIOGRAFIA

1) Emanuele Costanzo “Ritratto di una società” Foto Cult N° 55 giugno 2009

2) Alfredo De Paz “Fotografia e società” Editore Liguori 2001

3) David Levi Strauss “Politica della fotografia” Editrice Postmedia 2007

4) Ferdinando Scianna “Etica e fotogiornalismo” Editrice Electa 2010

5) Sebastiao Salgado “The Sight of Despair” American Photo gennaio-febbraio 1990

6) Nathan Lyons “Fotografi sulla fotografia” Agorà Editrice 1990

7) Augusto Pieroni “Leggere la fotografia” Editrice EDUP 2008

8) Diane Arbus “Fotografie” Editrice Milano 1982

9) Pierluigi Basso Fossali & Maria Giulia Dondero “Semiotica della fotografia” Guaraldi Editore 2006

10) Pio Tarantini “Fotografia. Elementi fondamentali di linguaggio, storia, stile” Edito in proprio reperibile presso libreria Hoepli di Milano, 2010

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